29 giugno 2009
La percezione del rischio e la sicurezza: quanto rischiamo veramente?
Immaginate per un attimo di vivere in una città di provincia. Nè bella, nè brutta. Con un tasso di disoccupazione medio. Ed un tasso di criminalità medio.
Se vi chiedessi di mandare vostro figlio di sei anni ad acquistare un litro di latte nel negozio sotto casa, lo mandereste? E se il negozio fosse distante 100 metri da casa? E se la distanza fosse di 300 metri? E se fosse di un chilometro?
Ecco, probabilmente chi legge avrà risposto. E avrà individuato una distanza inversamente proporzionale alla propria percezione di quel rischio specifico (attenzione, discutiamo di percezione del rischio, non di rischio effettivo).
In realtà, il problema è molto più vasto: ogni nostra attività quotidiana è basata sulla percezione che noi abbiamo del rischio ed è il frutto di una conscia (o inconscia) valutazione dello stesso. O meglio, di un’analisi e valutazione dei costi e dei benefici.
Qualche anno fa a New York (Sunstein, 2004) gli abitanti di alcuni quartieri sostennero una campagna per la rimozione dell’amianto dalle scuole, preoccupati per la salute dei propri figli. Gli esperti, al contrario, concordavano sul fatto che i rischi di cancro derivante dall’esposizione fossero statisticamente limitatissimi (era utilizzato per fini di prevenzione incendi ed era completamente inglobato all’interno delle strutture). Quando si scoprì che la rimozione avrebbe determinato la chiusura delle scuole per diverse settimane e che la chiusura avrebbe causato inconvenienti ai genitori, l’atteggiamento della popolazione cambiò e la rimozione dell’amianto si trasformò in una idea pessima. Quando poi furono resi noti i costi che l’operazione avrebbe comportato, la percezione del rischio dei genitori si allineò a quella degli esperti e non se ne fece più nulla. Il rischio percepito divenne rischio effettivo. L’amianto rimase lì dov’era. I genitori realizzarono una cosa che all’inizio della campagna non avevano fatto, una valutazione dei costi e dei benefici.
E quando un operaio in una piccola azienda lavora su di una pressa con le protezioni disinserite? Probabilmente, all’opposto del caso precedente, percepisce il pericolo derivante dall’operazione molto inferiore rispetto al vantaggio che trae dal velocizzare il lavoro.
Recentemente, in visita presso una piccola azienda padronale, ho visto un lavoratore operare con una calandra intento a profilare delle virole che, montate, avrebbero costituito il contenimento di un silos d’acciaio dell’altezza di circa 20 metri. Mia domanda all’operaio: “Ma perché sta operando a protezioni sospese?” Risposta: “Perché almeno una volta ogni due ore la virola per errore tocca la fune di emergenza e la macchina si blocca. E mi tocca riarmare il quadro elettrico”.
Anche in questo caso l’operatore ha fatto una sua personale valutazione dei costi e dei benefici. Lavorava a protezioni sospese per evitare di perdere 2 minuti ogni due ore. Non percepiva adeguatamente che poteva per errore calandrare pure le mani e le braccia. Tanto una cosa così non accade mai. Quasi mai.
Per modificare la percezione del rischio del lavoratore come si potrebbe fare? In realtà sarebbe necessario modificare pure quella del preposto che consente di operare il quel modo. E, a pensarci bene, un intervento sarebbe necessario soprattutto sul datore di lavoro, non credete?
PS – Il testo citato è: Sunstein C. R., Quanto Rischiamo, Edizioni Ambiente, Milano, 2004
Scritto il 29-6-2009 alle ore 16:04
Come uomo di cantiere, di fronte all’infortunio ormai consumato, le giustificazioni della “vittima” che mi giungono sono quasi sempre le stesse; con il passare degli anni sono cambiate solo le pronunce che denotano l’appartenenza a questa o quella regione del mondo/paese dal quale l’ultimo o penultimo arrivato è stato “dragato” e messo lì. Sono: “non mi era mai successo in trent’anni di lavoro!”, “non so come mi sia successo”, “è colpa di quel p…..del Mario (NdR: nome preso assolutamente a caso)”, “l’ho fatto da stupido! (stupido è una traslitterazione dalla lingua franca di cantiere)”, al che, cinicamente, all’operatore magari mutilato permanentemente rispondo “Mai visto nessuno farsi male da intelligente!”. Perchè, per me, la sicurezza è un fatto prima di tutto individuale: o ce l’hai in testa o è dura! La prevenzione, la stima del rischio è un “talento” individuale come l’abilità nell’eseguire una mansione. Se ce l’hai lo usi e lo puoi inofndere agli altri. Se no… Nella quotidianità, l’organizzazione del cantiere, sicurezza compresa, per essere efficace deve essere anche tradotta in gergo, sul tipo: “uso dei guanti di protezione” traduzione “Se non usi i guanti prendo quella verga del 50 e te la pesto sulla testa finché non si piega (la verga)” e via dicendo. Momento di confronto e poi morta lì: non c’è vassazione o minaccia, non c’è mobbing, si va avanti. E il POS e il PSC intanto fanno bella mostra di se stessi nel box ufficio, forse un po’ impolverati…
Sempre nel gergo, a proposito del datore di lavoro, fondamentale è il principo “il pesce puzza sempre dalla testa”. Vero. Ma quando il pesce è fresco…? Si può ammettere la figura “buona” del datore di lavoro? E quella “non adeguata” del responsabile della sicurezza? E i DPI a norma sono sempre adatti? E i progettisti (di qualunque macchina si tratti) hanno “sempre” fatto esperienza diretta sul montaggio e la conduzione della “creatura”?
Scritto il 30-6-2009 alle ore 13:48
Sono amareggiato perché sono arrivato alle stesse conclusioni in campo ambientale (un’indagine italiana con 1.000 questionari alla popolazione, 50 questionari per regione, sulla percezione dell’inquinamento).
Scritto il 30-6-2009 alle ore 18:20
La “gente” procede spesso secondo scorciatoie mentali ed ha talora “interesse” a rimanere “razionalmente ignorante”. I “rischi” maggiormente evidenziati dai media e quelli meno familiari vengono sovrastimati dall’opinione pubblica anche sotto il profilo quantitativo. La “gente” trova decisamente più comodo sottostimare rischi la cui riduzione richiederebbe faticose modifiche dei comportamenti quotidiani e spesso preferisce sopravvalutare pericoli la cui gestione è pressoché interamente nelle mani di un soggetto estraneo ai comuni cittadini e perciò agevolmente identificabile come un nemico (le grandi industrie, i gestori della rete elettrica, i politici, ecc.). Una conferma di questo è il livello del dibattito in corso sul “nucleare” anche su questo network. Il mondo è bello perchè è…avariato.
Scritto il 1-7-2009 alle ore 11:22
@ Corrado Tumanini: Concordo, anche se ritengo che stimare il rischio non sia solo una competenza innata. Per fortuna si può anche imparare, almeno i fondamenti
@ Alessandro Bordin: Anche a mio parere esistono rilevanti analogie tra la percezione del rischio in campo ambientale e quelle in materia di sicurezza sul lavoro.
Ciao
Marzio
Scritto il 28-9-2009 alle ore 18:04
Da uomo che si occupa di rischi a tutto campo, non solo quelli di uno specifico settore, direi che questo tuo post parla in buona sostanza di Risk Management cioè di quello di cui mi occupo io da diversi anni.
In Italia si respira ancora una certa ritrosia a trattare dei rischi e non solo di quelli in ambito lavorativo (pensiamo a quanti incidenti accadono nell’ambito domestico).
Forse noi abbiamo una visione spinta di questi aspetti, ma sono convinto che, se molti altri ce l’avessero, accadrebbero certo meno incidenti e vi sarebbe più rispetto per la propria vita e, dunque, per quella degli altri.
Un saluto.
Scritto il 29-9-2009 alle ore 18:25
@ Mauro Del Pup: Baruch Fischhoff nel 1974 asseriva che: “Si è più in disaccordo su ciò che il rischio è, piuttosto che su quanto esso sia grande”.
E non è una banalità. E’ molto più semplice rappresentare gli effetti attesi di un dato evento piuttosto che la frequenza di accadimento. Dire che uno scenario di incidente possiede una frequenza attesa di 10^-5 eventi/anno è tanto? Poco? Così-così? Non siamo “progettati” da madre natura per afferrare semplicemente il significato della statistica, purtroppo.
Ciao
Marzio
Scritto il 28-10-2009 alle ore 17:51
Beh, l’argomento è accattivante. Credo sia il fulcro vero della prevenzione: se non percepisco il rischio o il livello di rischio, non sono in grado di valutare l’adeguatezza delle misure preventive che devo prendere. Mi occupo di sicurezza da 25 anni (nel settore chimico di processo)e l’esperienza mi ha insegnato che la sicurezza si ottiene partendo dalla base. Il “preposto” può sorvegliare, ma non riesce certamente ad ottenere buoni risultati se il collaboratore non “metabolizza la sicurezza come un valore intrinseco del suo lavoro. Ho ottenuto ottimi risultati in vari settori (non solo chimico) introducendo criteri di sicurezza comportamentale. dovrebbe essere insegnata a scuola, a partire dalle elementari.
ciao
Paolo
Scritto il 29-10-2009 alle ore 12:50
Grazie Paolo del contributo. Il valore intrinseco della sicurezza è un aspetto molte volte trascurato ma per fortuna le aziende chimiche hanno fatto da apripista.
Inoltre, sicuramente la sicurezza comportamentale dovrebbe essere insegnata a scuola. Ma da chi?
Ciao
Marzio
Scritto il 16-11-2015 alle ore 13:10
condivido i commenti sopra … ed in particolare concordo sul fatto che la sicurezza, la cultura della prevenzione, dell’igiene, della buona gestione del territorio così della buona condotta di guida, ecc. ecc. ecc.., sia un fatto culturale. Tuttavia, mio modesto avviso, penso che una società per poter cambiare dovrebbe iniziare a progettare il futuro a cominciare dalle nuove generazioni. Questo, per farlo dovrebbe ovviamente iniziare ad educare i propri giovani che si affacciano alla vita prima come studenti e poi come lavoratori ed genitori. Allora non possiamo non considerare che – forse – la soluzione sta nel cominciare “tutti” a seguire comportamenti che insegnano e diano educazione. Faccio alcuni es.: se un amministratore, sindaco, governatore, ecc., per tutelare i cittadini, adotta provvedimenti preventivi circa il rischio derivante da piogge intense, questo non solo è utile al presente ma lo sarà come insegnamento per i giovani che ragioneranno su quel provvedimento (scuole, cinema, parchi, chiusi per quel motivo); oppure, nel momento in cui di predispone una gara d’appalto per rete gas in un comune, il sindaco dovrebbe imporre all’impresa che dopo dovrà gestirlo, garanzie su un tecnico disponibile e residente “nel luogo” e non lontano due ore di auto (pensiamo se dovesse intervenire per una fuga di gas straordinaria …), i giovani che verranno a conoscenza di questo trarranno insegnamento perché qualcuno gli spiegherà le ragioni di tale scelta; dare buon esempio sulla ottimale tenuta delle facciate degli edifici pubblici, insegna ed educa; tenere i letti dei fiumi puliti, i tombini, ecc., insegna ed educa i giovani; progettare una piazza rinunciando a qualche arredo urbano (panchine di troppo, ostacoli vari, fra l’altro costosissimi), tenendo conto degli spazi necessari da garantire ad eventuale accoglimento delle persone in caso evacuazione a seguito di PEI per un evento (atteso e probabile a seconda del luogo), insegna ed educa; potrei continuare … Se poi a questo si aggiunge – come suggerito sopra – il possibile insegnamento nelle scuole di tale cultura allora io credo alla soluzione ci siamo abbastanza vicini … Beh, a scuola chi insegna queste discipline? Non credo questo sia un problema. Non posso credere che nel mondo degli ordini dei professionisti, dei funzionari pubblici della prevenzione, degli stessi professori che potrebbero acquisire moduli formativi specifici, ecc., ciò non sarebbe possibile … Basta volerlo ed infatti, alla fine, è chiaro che è un problema di cultura, solo quella, volere è potere. Altrimenti, per tutta la nostra esistenza continueremo a dirci che a questo problema non c’è soluzione … non è così! Se così fosse allora sarebbe inutile lamentarci …
Comunque Grazie a questo blog che mette in evidenza problemi comportamentali-culturali al di là degli aspetti squisitamente tecnici. Cordialità.